Dopo le recenti sentenze che hanno censurato una parte del Regolamento capitolino sulla localizzazione degli impianti di telefonia mobile, la proliferazione selvaggia di antenne e ripetitori nella città sta assumendo proporzioni drammatiche, con pesanti strascichi a causa dell’acuirsi dei conflitti sociali.
Il Consiglio di Stato, nel gennaio scorso, mutando orientamento rispetto alla copiosa giurisprudenza del passato, e sfruttando il deprecabile vuoto decisionale accumulato per l’intera consiliatura dall’attuale governo capitolino, ha cancellato la misura di controllo dei siti sensibili, introdotta con il Regolamento del 2015, che si fondava sul limite distanziale di cautela di 100 metri tra le antenne ed una serie di luoghi, ritenuti ad alta frequentazione, tra cui scuole, asili nido, ospedali e i parchi gioco, meritevoli di particolare tutela.
Gli uffici comunali preposti, Urbanistica e Ambiente, ascoltati di recente in Commissione Urbanistica, hanno dichiarato la resa, di fronte ad un fenomeno che è sfuggito al controllo amministrativo e, aggiungo, delle istituzioni.
L’inerzia e l’incapacità, con cui il Campidoglio ha sostanzialmente rinunciato per cinque anni alle proprie prerogative sul tema della corretta gestione delle infrastrutture di telefonia mobile nel territorio della città, si sono inevitabilmente ritorte sullo stesso governo capitolino e le ambizioni di prosecuzione che coltiva.
Ereditare un Regolamento condiviso e non applicarlo con gli strumenti che lo stesso indica (Piano antenne con relativi criteri, Osservatorio partecipativo sull’elettrosmog, catasto degli impianti, indagini epidemiologiche, campagne di informazione ed educazione ambientale, ecc..) equivale a gettare al vento una irripetibile risorsa, che avrebbe favorito il controllo per la gestione di una razionale localizzazione delle antenne nel territorio ed alleviato ai cittadini i rischi ed i disagi legati a collocazioni improprie degli impianti.
Roma gode del particolare primato di ospitare nel proprio territorio oltre 5 mila fra antenne, ripetitori e torri dedicate ai servizi di comunicazione mobile. Il numero è certamente indicato per difetto, poiché nemmeno gli uffici preposti conoscono la quantità di impianti realmente posizionati nella città.
Perfino il Dipartimento Patrimonio capitolino ammette di non aver ancora completato il censimento delle aree di proprietà comunale, con le relative titolarità di gestione. Invocare, dunque, il catasto delle antenne in questo desolante panorama di inerzia è un semplice, inutile esercizio di stile, che mostra tutti i limiti di una macchina organizzativa amministrativa a dir poco lacunosa.
E per meglio comprendere l’approssimazione e l’improvvisazione con cui il Campidoglio si è cimentato nella gestione di questo delicato tema, è sufficiente leggere gli atti della sentenza con cui il Consiglio di Stato ha bocciato l’art. 4 del Regolamento sulla gestione delle antenne, laddove lo stesso giudice d’appello “suggerisce” al Comune la modifica da apportare al testo censurato per restituire legittimità ai c.d. criteri localizzativi.
Ecco, se al Comune, avvalendosi degli uffici della Avvocatura, non hanno compreso neppure questo dettaglio e non si affrettano ad intervenire per apportare i conseguenti interventi modificativi al Regolamento, stante l’opportunità della coda di consiliatura protratta per decreto, significa che Roma ha perso ogni speranza di essere governata!
Dott. Giuseppe Teodoro – Vice presidente di Ecoland
Consulente delle amministrazioni comunali per le politiche di gestione territoriale delle infrastrutture di comunicazione elettronica